Si muore per il virus

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Nella massiccia e talora frastornante campagna mediatica che sta accompagnando la diffusione dell’infezione da covid-19 o nuovo coronavirus ancora non manifestatasi in tutta la sua nefasta potenza nel mondo non mancano contraddizioni, omissioni e addirittura mistificazioni che compromettono gravemente l’obiettività dell’informazione e provocano disorientamento e panico in una opinione pubblica già sufficientemente spaventata. Alcuni importanti dati non sono emersi con la necessaria evidenza e la loro interpretazione non sempre è risultata convincente. Primo fra tutti il dato delle differenze, che dovrebbero ripercuotersi sulle strategie di difesa, del tasso di letalità da coronavirus che ad oggi varia nei cinque maggiori paesi europei dal 9,43 per cento dell’Italia allo 0,31 della Germania, mentre oscilla fra il 4 e il 5 in Francia, Regno Unito e Spagna.

Non è affatto chiaro quanto le differenze debbano essere attribuite a fattori ambientali o inerenti al virus oppure a metodi diversi di classificazione e di calcolo statistico o altro ancora: come è stato osservato da più parti manca un vero coordinamento a livello europeo sia dei criteri di rilevamento dei dati e dei processi, sia delle condotte strategiche di prevenzione e lotta all’infezione.

Si consideri inoltre che, mentre da una parte si scandiscono, con toni concitati ed estranei alla visione di una chiara strategia difensiva, i numeri dei deceduti e delle situazioni più drammatiche, dall’altra si lanciano messaggi fin troppo tranquillizzanti che possono distogliere i cittadini dagli attuali comportamenti e sacrifici inderogabili per ridurre il più possibile la diffusione del contagio. Nel campo di coloro che tendono a minimizzare la pericolosità del virus sembra prendere sempre più quota, dopo le esplicite esternazioni che definivano l’infezione da coronavirus «poco più che un’influenza», la singolare e pericolosa teoria che non si muore «per», cioè a causa di coronavirus, ma si muore «con» coronavirus, cioè in compagnia di questo molesto ospite, come se il virus non avesse alcun ruolo nella morte della stragrande maggioranza dei deceduti (quelli con un’età media intorno agli ottanta anni) se non quello di esecutore di una sentenza già pronunciata.

Ma è proprio vero che le cose stiano così?

No: affermare che «il virus da solo causa lo 0,8 per cento delle vittime» rappresenta un vero e proprio capovolgimento della realtà inducendo a ritenere il virus praticamente innocuo. Una sorta di schizofrenica gestione dell’informazione disorienta i cittadini e non giova all’azione di contrasto alla diffusione del morbo.

Siamo dunque costretti a ricordare che la legge prescrive l’obbligo del cosiddetto «riscontro autoptico» in tutti i deceduti in ospedale: dal punto di vista medico legale la causa di morte viene definita in base ai reperti autoptici e istopatologici registrati nelle cartelle cliniche. Le altre circostanze – età, affezioni concomitanti, stato generale eccetera – sono  fattori che tutt’al più possono aver favorito l’infezione, accelerato il decorso della malattia infettiva ed affrettato la morte del paziente, ma non ne costituiscono la causa diretta. Invece, se in base al reperto autoptico e istopatologico sono state riscontrate lesioni polmonari di entità tale da poter causare la morte del paziente, non c’è dubbio che questa deve essere considerata la vera causa dell’evento letale. In termini lapalissiani si può affermare che senza il fatale incontro con questo temibile virus il paziente, per fragile che fosse stato, non sarebbe deceduto.

Più in generale potremmo calcolare per questi pazienti le aspettative di vita al momento del decesso, l’impatto affettivo della vicenda, la perdita economica personale e della famiglia; si potrebbe perfino arrivare a discutere se quella vita sarebbe stata degna di essere vissuta: ma qui entriamo in un dibattito molto scabroso,  nell’ambito dell’etica, che il più delle volte implica scelte assai difficili. Non c’è dubbio tuttavia che il primo dovere della scienza medica è quello di proteggere le categorie più fragili: tutti coloro che presentano handicap o debolezze di ogni tipo e in primo luogo gli anziani. Solo il dato dei reperti autoptici e istopatologici sui deceduti è in grado di fare luce sul vero ruolo del virus nella infezione e nella genesi dei decessi.

Stupisce che, nonostante un numero di vittime purtroppo eccezionale e in grado di fornire un campione statisticamente significativo, questi dati non siano emersi e non siano nemmeno menzionati nei report giornalieri delle competenti autorità sulla diffusione dell’infezione da covid-19. Sarebbe invece oltremodo utile conoscerli insieme a quelli, non meno importanti, dell’imaging radiologico di questi pazienti.

Girolamo Digilio

Nella foto: l’istituto superiore di sanità