Un governo anomalo

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La crisi di governo appena risolta (provvisoriamente?) induce a considerazioni amarissime sulla democrazia italiana che, per Costituzione, è basata sulla sovranità popolare, ma viene sensibilmente distorta nella prassi. Sono due i principali fattori di distorsione. Però, ecco il punto, sono connessi a disposizioni costituzionali.

Il primo fattore di distorsione è previsto dall’articolo 67 della Costituzione, secondo cui «Ogni membro del Parlamento rappresenta la nazione ed esercita le funzioni senza vincolo di mandato». Questo articolo significa che ai deputati e senatori non possono essere imposti vincoli giuridici, non già che non siano soggetti ad alcun vincolo. Per esempio, devono rispettare i regolamenti parlamentari. Nelle Camere non solo non possono fare quello che passa loro per la testa, ma sono pure soggetti a sanzioni anche umilianti, come l’espulsione a viva forza dalle aule o l’interdizione a partecipare alle sedute. Non sono delegati del popolo con una procura da eseguire, ma rappresentanti politici che votano secondo gl’indirizzi di partito e sono liberi di sottrarsene. Il divieto di mandato imperativo è posto a garanzia dell’indipendenza del parlamentare da interessi diversi da quelli che assume esplicitamente aderendo alla lista e che il suo partito patrocina. Come al parlamentare, essendo inammissibile un vincolo di mandato, non può essere imposto il ruolo di «portavoce» dei suoi elettori (ruolo a cui pretendevano di degradarlo i grillini), così allo stesso parlamentare, essendo egli un rappresentante politico, non può essere concesso il mero arbitrio di comportamento. Infine, il parlamentare, al quale sono affidate funzioni pubbliche per eccellenza, deve «adempierle con disciplina ed onore», secondo l’articolo 54 della Costituzione.

Il secondo fattore di distorsione sta nell’articolo 94 della Costituzione, secondo cui «Il Governo deve avere la fiducia delle Camere». Intendiamoci, la distorsione non sta nell’articolo in sé, ma nel travisamento sottinteso: non «deve avere la» ma «purché abbia una» fiducia delle Camere. Benché di fiducie stentate, contorte, biasimevoli esista un ricco elenco, i governi di Giuseppe Conte hanno raggiunto la perfezione del genere considerando sia la persona del presidente del Consiglio, sia le sue maggioranze parlamentari. Le Camere, una volta elette, non sono trovatelle che il popolo abbia depositato sulla ruota degli esposti. Esse ne sono figlie legittime e consanguinee, lo specchio della volontà degli elettori, come dichiarata dai partiti che, prendendone i voti, la rappresentano. Il mandato politico ricevuto dai partiti nel Parlamento del 2018 era chiaro lippis et tonsoribus, inequivocabile. Sulla base di tale mandato nessun governo poteva ricevere la fiducia perché non esisteva una maggioranza politica. In verità, fu ritenuto che il centrodestra, la coalizione coerente con la volontà elettorale, avesse bensì la maggioranza relativa, ma non abbastanza relativa da concederle il tentativo di formare il governo. Qui non conta appurare perché e come Matteo Salvini se ne distaccasse e facesse il governo con Beppe Grillo. Resta il fatto che la maggioranza così formatasi fu tanto assurda che i contraenti non strinsero un patto politico ma firmarono un «contratto di programma», aberrazione nella distorsione. A sovrintendere all’adempimento delle clausole contrattuali fu chiamato nientemeno un arbitro esterno, un vero avvocato, poi autodefinitosi presuntuosamente «avvocato del popolo» senza che il popolo l’avesse mai interpellato. I loro elettori scelsero Salvini e Grillo perché avevano ricevuto l’assicurazione pubblica che l’uno avrebbe sbarrato la strada del governo all’altro. Il presidente del Consiglio e il suo governo furono sommersi di contumelie dall’opposizione di Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi, alleati di Salvini nelle urne e avversari adesso in Parlamento, e di Nicola Zingaretti, rimasto solo contro tutti.  Non era questo che il popolo aveva voluto. Passa un anno. Salvini, Zingaretti, Grillo eseguono la capriola che rimette Salvini all’opposizione mentre Zingaretti e Grillo vanno a nozze officiate dal medesimo presidente Giuseppe Conte, stavolta senza toga d’avvocato ma in abito talare. Non era neppure questo che il popolo aveva voluto.

Considerare questi fatti alla stregua del corretto funzionamento del «governo rappresentativo» costituisce un insulto alla logica, una manipolazione della Costituzione, un’adulterazione della volontà popolare. I governi di Giuseppe Conte, guidati da un presidente egli stesso acrobatico trasformista, sono e saranno ricordati come l’acme del processo in atto che distorce la genuina democrazia parlamentare in regime assembleare spurio. La questione se il trasformismo personale dei parlamentari sia anche una questione d’onore pare secondaria rispetto al trasformismo istituzionale dei partiti che ipocritamente incolpano i loro singoli aderenti. Quando il primo trasformismo si salda al secondo, il governo parlamentare, benché con la fiducia formale delle Camere, viene costituito in frode alla sovranità popolare e corre il serio rischio di sovvertire la democrazia, se essa ha da essere quel ch’è nel nome.

Pietro Di Muccio de Quattro

Dal quotidiano L’Opinione delle Libertà di venerdì 22 gennaio 2021

Nella foto: Giuseppe Conte