Retorica sfrontata

683

Il felice esito della cattività inflitta da sanguinari terroristi, intrisi del più fanatico islamismo, alla cooperante Silvia «Aisha» Romano ha suscitato commenti d’ogni genere, inevitabili. Voglio aggiungervi qualche notazione mia, senza pretesa d’assoluta originalità ma con qualche sfumatura personale.

L’accoglienza al suo ritorno in patria non pare giustificata dai fatti. Beppe Severgnini sul Corriere della Sera ha usato l’understatement, forse perché parla perfettamente inglese: «Una cosa si può concedere: la coreografia all’arrivo a Ciampino è sembrata eccessiva. L’Italia aveva bisogno di una buona notizia, ma si è esagerato. La forma ha finito per condizionare la sostanza, una bella sostanza. Una ragazza che ha rischiato la morte è viva e torna a casa».

La concessione di Severgnini ai critici della vicenda a me risulta davvero blanda. Non si tratta di apparenza che sminuisce l’accadimento. L’esagerazione non riguarda la forma. Se non sbaglio, Severgnini sta tirando le orecchie al cerimoniale, anziché ai protagonisti politici.

Lo affermo con il dovuto rispetto verso il Governo: che un presidente del Consiglio in mascherina bianca e un ministro degli Esteri con mascherina tricolore vadano in aeroporto ad accogliere una brava donna liberata a suon di milioni di euro dalle mani di estorsori mediante azioni coperte dei servizi segreti è roba da bassa propaganda e miserevole vanità, non un atto di Stato o da statisti.

Sempre con dovuto rispetto, ma verso la vittima del sequestro, aggiungo questo: la benintenzionata cooperante, a parte la sua caritatevole indole virtuosa, non esibisce altri pregi se non lo scampato pericolo per merito altrui. La passerella governativa esprime al peggio l’inclinazione nazionale all’esagerazione retorica, sia verbale, sia comportamentale. Se il Governo, al massimo livello ahimè, accoglie così ogni persona che nelle stesse o analoghe circostanze torna viva in Patria «avendo rischiato la morte», cosa dovrà, dovrebbe, fare per onorare un caduto dell’Italia nell’adempimento del dovere?

Non percepiscono questi governanti, che suscitano in me una pudibonda vergogna, non avvertono costoro l’incolmabile sproporzione tra la loro fatua condotta e l’effettiva valenza politica dei fatti? Tutto è bene ciò che finisce bene, d’accordo. Però l’occasione dovrebbe indurre le forze politiche a domandarsi cos’è davvero la cooperazione internazionale, oggi.

I media se ne occupano quasi esclusivamente quando capitano rapimenti e uccisioni di un cooperante, laico o religioso. Tendono a non affondare l’occhio della conoscenza in un settore che non è soltanto rose e fiori, generosità e amore del prossimo, bensì anche politica allo stato puro, cioè geopolitica e ragion di Stato.

Anche in questo campo sterminato, i media e i partiti dovrebbero «seguire i soldi». Infatti ne girano tanti, e non sempre con intenti filantropici. Ricordo a me stesso che, per la cooperazione internazionale, nella prima Repubblica furono dissipate, da altri presidenti del Consiglio e ministri degli Esteri, migliaia di miliardi di lire (sì, avete capito bene!) cioè miliardi di euro per «aiutare», per esempio, proprio quelle terre nelle quali imperversano i tagliagole beneficati oggi dal riscatto.

Pietro Di Muccio de Quattro

Dal quotidiano Il dubbio di martedì 19 maggio 2020